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In occasione della graduale riapertura delle attività è emersa, con notevole apprensione per tutti i datori di lavoro, la problematica relativa alla responsabilità penale e civile per un eventuale contagio da COVID del dipendente. 

L’apprensione era giustificata dal tenore delle prime norme introdotte nel Decreto Cura Italia (d.l. 17 marzo 2020 n. 18), con particolare riferimento all’art. 42 comma 2, ove era previsto, senza nessuna particolare specifica o interpretazione che “nei casi accertati di infezione da coronavirus in occasione di lavoro il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio……”.In sostanza il citato articolo del decreto legge attestava che l’infezione da COVID, così come accade per tutte le infezioni da agenti biologici se contratte in occasione di lavoro, è tutelata dall’INAIL quale infortunio sul lavoro e ciò anche nella situazione eccezionale di pandemia causata da un diffuso rischio di contagio in tutta la popolazione(1).

Ebbene, se l’infezione da COVID del dipendente in occasione del lavoro è considerata infortunio, quali possono essere le responsabilità giuridiche in capo al datore di lavoro, e di tutte le altre posizioni di garanzia presenti in azienda, ai sensi del D.Lgs. 81/2008, in caso di contagio di un dipendente?

Vi potrebbero essere delle conseguenze anche per l’azienda ai sensi della normativa di cui al D.Lgs. 231/2001, con implicazione della responsabilità amministrativa dell’ente? Innanzitutto è importante fare una distinzione tra attività a rischio contagio “diretto”, ovvero le attività sanitarie e quelle che prevedono un costante contatto con il pubblico o l’utenza, e tutte le altre attività. La differenziazione è necessaria in quanto nelle realtà non a rischio diretto, in caso di contagio sarà il lavoratore a dover provare che la malattia è stata contratta in occasione del lavoro cosa che, alla luce delle caratteristiche del virus, sarà difficile se non, addirittura, impossibile. Tuttavia il rischio non è da sottovalutare a priori e il datore di lavoro dovrà tutelare sé e i propri dipendenti per evitare di incorrere in una responsabilità civile e penale derivante dall’accertato contagio di un dipendente, ma come potrà farlo?

Occorre evidenziare che, nell’ambito della sicurezza del lavoro, l’emergenza COVID non ha stravolto il complesso delle norme prevenzionistiche vigenti, piuttosto si potrebbe dire che, sotto alcuni aspetti, sono stati offerti al datore di lavoro strumenti di immediata applicazione da contestualizzare nell’ambiente di lavoro (2). In sostanza il datore di lavoro, per fronteggiare il rischio COVID, deve considerarsi tutt’altro che disorientato e senza strumenti ma ha a sua disposizione una serie di informazioni, protocolli, linee guida e istruzioni che gli consentono di poter organizzare in sicurezza il luogo di lavoro. Ecco che, così operando, il datore di lavoro non dovrà preoccuparsi di dimostrare dove il lavoratore abbia contratto il virus, ma dovrà soffermare l’attenzione su quali misure di prevenzione e sicurezza ha impiegato, così da fornire la prova di avere rispettato le norme di cui al D.Lgs. 81/2008 e, in linea generale, l’art. 2087 del Codice Civile.

A riguardo è utile ricordare che un recente orientamento della Suprema Corte(3) ha stabilito che il datore di lavoro è chiamato ad impiegare quelle misure di prevenzione possibili e praticabili in azienda, nonché concretamente attuabili (superando il vecchio, e più stringente e rischioso orientamento, che prevedeva una sorta di responsabilità oggettiva del datore di lavoro per ogni infortunio occorso al lavoratore). A supporto di questa linea è intervenuta una nuova circolare dell’INAIL(4) che ha chiarito quali sono i limiti della responsabilità del datore di lavoro, che è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o degli obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governative e regionali di cui all’art. 1, comma 14 del D.L. 16 maggio 2020 n.33. L’INAIL, a completamento, chiarisce che in assenza di comprovata violazione, da parte del datore di lavoro, delle misure di contenimento del rischio contagio di cui ai protocolli e alle linee guida, sarebbe molto arduo ipotizzare e dimostrare la colpa del datore di lavoro.

Come si può notare dall’interpretazione delle norme operata sia dall’INAIL sia dalla giurisprudenza di riferimento, bisogna tranquillizzare il datore di lavoro virtuoso, ovvero la realtà lavorativa nella quale vengono rispettati i protocolli e le linee guida in materia di contrasto al COVID.

In queste realtà, infatti, l’eventuale contagio del lavoratore sarà trattato dall’INAIL come infortunio, con garanzia assistenziale assicurativa per il lavoratore, ma il datore di lavoro, potendo dimostrare di aver rispettato tutte le misure necessarie per prevenire il contagio, sarà esente da colpa agli effetti di cui al D.Lgs. 81/2008.

Resta inteso che, come per tutte le altre misure di sicurezza, sarà necessaria da un lato la collaborazione del lavoratore nel rispettare le direttive e le indicazioni del datore di lavoro e di tutte le altre figure aziendali mentre, dall’altro lato, sarà necessario che le figure aziendali deputate al controllo del rispetto delle norme di sicurezza svolgano il loro ruolo in modo preciso e rigoroso, segnalando le situazioni di rischio e, soprattutto, eventuali comportamenti del lavoratore non conformi alle direttive. 

Stante l’incidenza del rischio per l’azienda si segnala, infine, che sarebbe opportuno anche un aggiornamento dei modelli organizzativi di cui al D.lgs. 231/2001 eventualmente adottati dall’azienda e delle specifiche procedure in materia di sicurezza del lavoro, al fine di tutelarla anche rispetto alla responsabilità amministrativa.

Avv. Egidio Rossi

 

 

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1 Sul punto è stata chiara la circolare INAIL n. 13/2020

2 Vedasi i protocolli allegati al DPCM 26 aprile 2020
3 Cassazione n. 8911/2019)
4 Circolare n. 22 del 20 maggio 2020